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note dal cinematografo

NOTE DAL CINEMATOGRAFO / Appunti scimmieschi attorno al cinema, i suoi posti.

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The Favourite

Al solido corpo di lavoro di Yorgos Lanthimos si aggiunge una variante in tanti modi uterina che vince, a parer mio, l’ambiziosa scommessa di scamolare un genere tanto classico quanto quello del dramma in costume.
The Favourite rilegge la maturità della Regina Anna mettendo ai pochi dettagli storici di fondo le tragicomiche ali dell’intrigo, del potere, dell’invidia, della solitudine, della disperazione, dell’autolesionismo e della ricerca di salvezza, senza tradire quel vago nichilismo—questa volta in una forma molto più discreta e digesta—che sin dalla sua ardita opera prima divide dei critici parole e stomaci.
Più assurdista che assurdo come i suoi precedenti, The Favourite è una storia di ribellione e di battaglie comunque perse, comunque combattute—al fronte, di palazzo, personali o interiori. E non ci si lasci inebriare dal profumo di legno antico e cera, né distrarre dalla regale battuta che tutti ricorderanno—‘I like when she puts her tongue in me.’—perché l’audacia di The Favourite trascende la sua sguaiata apparenza. Si rifletta piuttosto sull’ultima scena, che secondo consolidata predilezione dell’autore greco e meravigliosa sintesi metaforica, riassume in un’unica goffa immagine il film intero. E il suo raffinato messaggio.

 
—acYorgos Lanthimos, 2018
Dogtooth

Di film strani ne ho visti tanti e ne ho fatto uno, corto e storto, con una sputazza finta di sangue in terra—ma quello che ad oggi resta delle allucinazioni di Yorgos Lanthimos la più iconica, li mette tutti in ginocchio. Tutti tranne il mio, naturalmente, che seduto stava e tale resta.
Mi fermo un attimo dopo averlo visto. Vorrei scrivere una nota a caldo. Cerco una via di lettura, una porta anche piccola come quella di Alice perché Dogtooth, che a suo deviato modo è senz’altro un paese delle meraviglie, lascia come tutti i lavori di Lanthimos—con il desiderio di trovare quella minuscola via d’accesso. Ed è così, smarrito e confuso da sentimenti inconciliabili—curiosità, sconcerto, entusiasmo, frustrazione—che mi ritrovo muto e immobile davanti al bianco brillante della pagina vuota.
Le dita sfiorano la tastiera sperando che sia lei a suggerirmi qualcosa—a volte funziona. Senza accorgermene, mi ritrovo ad aver scritto la parola sperimentale. Suggerimento sbagliato, mai fidarsi delle macchine—la cancello immediatamente vergognandomi di averla in qualche modo pensata. Mi guardo con la coda dell’occhio nello specchio. Poco dopo, surreale compare sulla schermo. Mi convince di più, o forse no—è così generico. Così la cancello, ma lentamente, retrocedendo lettera per lettera, pensando che in fondo qualcosa di surreale in Dogtooth c’è. Respiro profondamente, a questo punto un po’ scocciato perché i miei minuti stanno scadendo e le palpebre si sono fatte pensanti. Poi finalmente mi convinco di aver formulato un’idea compiuta. Qualcosa del genere—Dogtooth corteggia il platonico mito della caverna per puntare il dito sull’educazione e sollevare dubbi sul delicato ruolo dei genitori. Crescere una figliata ha smesso di essere un compito naturale nel momento in cui il secolo ha cominciato a caricarci di pressioni, esponendo sempre di più l’individuo alla collettività, alle sue meschinità, alla sua insoddisfabile sete di manipolazione, forzandolo infine a un confronto aberrante e malato. Il figlio dell’uomo si fa forte e colto, ma disimpara ad accostare i colori ed è sempre più indifeso. Ed è forse questa la critica più caustica che Lanthimos scocca scrivendo personaggi di nuovo al limite tra il comico e l’inquietante, ma questa volta sorprendentemente empatici.
Ora ho decisamente sonno, ma non posso fare a meno di chiedermi un’ultima cosa—se Lanthimos si renda conto delle espressioni che riesce a stampare sul volto del suo pubblico. Complice l’ora, la mia è quella di un piccolo fiore giallo—immagino non gli dispiacerebbe saperlo.
Di certo non rileggo. Spengo la luce, ma non chiudo gli occhi.

 
—acYorgos Lanthimos, 2009
Kinetta

Kinetta è il debutto onesto, cinico e nichilista che ci si aspetta—il delirio primo, almeno in veste d’autore, che Yorgos Lanthimos ventenne popola di figure umane in cerca di un ruolo e di personalità, di sonnambuli poco sorridenti e poco loquaci calati in una città polverosa e svuotata come loro, uniti da niente se non dalle rispettive peculiari ossessioni. Lunghi, insistenti silenzi indifferenti alla poesia, appena sfiorati dal tartagliare della cinepresa e tinti da toni minimi e sbiaditi, legano scene estremamente belle ed efficaci a sipari da teatro dell’assurdo, e l’occasionale, appena percettibile umorismo al più profondo niente. Pur cedendo a tutte le tentazioni stilistiche del genere e rispettando diligentemente la più canonica non convenzionalità del cinema indipendente pre-digitale, non è un Lanthimos del tutto acerbo quello che già riesce a provocare con ironia lasciandoci perplessi e disorientati—proprio come i suoi assurdi personaggi.

 
—acYorgos Lanthimos, 2005
The Killing of a Sacred Deer

Quello che avevo trovato a tratti forzato in The Lobster, mi è parso non solo convincente, ma addirittura indispensabile in questo. Maggiore è il coinvolgimento emotivo del personaggio, meno sono le corde con le quali, sfiorando il limite dell’ibernazione, è interpretato il ruolo—quasi come se l’attore stesse scorrendo la sceneggiatura in una sessione di lettura, piuttosto che recitarla anima e cuore secondo mestiere. È una scelta spassionatamente anticonvenzionale, acuta e, nonostante le apparenze, più profonda che semplicemente stilistica, con cui Yorgos Lanthimos ci racconta una storia surreale in cui tragedia greca e satira sociale si sposano—e felicemente figliano. The Killing of a Sacred Deer è un film che impone una riflessione anche a chi vorrebbe dimenticarlo già al tetro passaggio dei titoli di coda.

 
—acYorgos Lanthimos, 2017